Si sente più frequentemente auspicare negli ambienti politici comunitari un’Europa erbivora, dimenticando tuttavia di ricordare che gli erbivori in natura sono il pasto più facile e prelibato degli animali predatori. In realtà, un continente che si vorrebbe fare Stato per sopravvivere, ha bisogno di essere competitivo in tutti i settori, da quello energetico a quello tecnologico, da quello industriale a quello della difesa. Le imprese nella fattispecie hanno bisogno di certezze, perché chi investe il proprio denaro tende a chiedere chiarezza e competitività al territorio in cui intende operare. Il resto rimangono chiacchiere e utopie avventurose
di Andrea Taschini
Erbivori al pascolo nell’era della tecnica
Chi è stato in Africa, dove la natura è intatta e seduta su regole ancora primitive, sa bene che l’ultimo anello della catena alimentare è rappresentato dagli animali erbivori la cui unica difesa è la fuga o tutt’al più il mimetismo, senza i quali la loro fine sarebbe assicurata.
Chi vive nella opulenta Europa sembra avere dimenticato quale sia in natura il destino riservato agli animali erbivori, pensando forse agli imponenti bovini visti alpeggiare tranquilli in qualche bucolica gita sui monti della Svizzera.
Imitare metaforicamente gli erbivori dà forse un senso di serenità, ma purtroppo in un contesto dove i carnivori stanno diventando sempre più numerosi e aggressivi questa attitudine politica diventa un’utopia spericolata e assai temeraria. Ci tentarono nell’antichità i Greci che, dismesse le armi, furono travolti dalla potenza pragmatica di Roma, divenendo così una splendida Disneyland culturale e turistica per tutto il mondo antico, perdendo tuttavia ogni rilevanza politica e di conseguenza anche economica.
Ci riprovarono i Romani che, con l’avvento del cristianesimo, porsero l’altra guancia e i barbari travolsero in un lampo il loro impero millenario.
Sappiamo bene quanto le lezioni del passato siano vane, soprattutto in questa Unione Europea dove si fa di tutto pur di dimenticare la storia e le proprie origini.
Credo che in larga parte ciò sia dovuto all’estraneità culturale dei Paesi nordici che, mai conquistati dalla civiltà greco-romana, tendono a sottovalutarla e forse anche a disprezzarla. Da questo atteggiamento deriva, a mio parere, la difficoltà europea a costruire una casa comune in cui convivere.
Il dado è tratto
Le elezioni tedesche hanno finalmente avuto luogo.
Dico finalmente perché la campagna elettorale tedesca, per la qualsivoglia svolta che comunque avrebbe rappresentato, ha trascinato l’Unione Europea in una politica ambientalista che l’Europa avrebbe molto probabilmente preferito risparmiarsi.
L’incalzare dei Verdi, visti fino a poco prima delle elezioni scalare la posizione di primo partito tedesco, ha terrorizzato i due maggiori partiti nazionali spingendoli a posizioni ambientaliste talmente estreme da arrivare alla proposta del Fit for 55, fonte di notevoli grattacapi per tutti gli Stati manifatturieri e per i loro cittadini.
Il Fit for 55 e la politica energetica tedesca
La proposta Fit for 55 formulata dalla Commissione Europea nasce, non a caso, da due volontà politiche ben precise: quella rappresentata dal Commissario designato dall’Olanda (Paese non energivoro e praticamente non sfiorato dalla questione) Frans Timmermans e dalla Presidente tedesca della commissione Ursula Von Der Leyen (gli altri Commissari hanno al contrario alzato più di un sopracciglio). Le emissioni di CO2 europee al netto di quelle tedesche rappresentano il 4,9% di quelle mondiali, quindi praticamente insignificanti.
Quelle teutoniche, invece, sono particolarmente robuste non solo perché sono il 3,1% di quelle mondiali, ma sono frutto di una produzione energetica tedesca derivante per il 40% dalla lignite e dal carbone e cioè tra i combustibili fossili più inquinanti.
Il problema europeo è quindi come si può ben vedere in larga parte tedesco, né italiano né francese per il semplice fatto che i due Paesi manifatturieri dipendono in larga parte da fonti rinnovabili (Italia 37%) e da energia nucleare (Francia >70%). C’è il sospetto quindi che il Fit for 55 che elargisce denari a pioggia serva più per aggiustare le intemperanze energetiche tedesche che quelle del resto dei Paesi europei, con l’alta possibilità che l’Unione paghi i costi della riconversione energetica della Germania.
La crisi delle materie prime
L’intera faccenda del Covid per quasi due anni ha distratto tutte le migliori menti della nostra generazione.
L’impatto mediatico e la paura che la malattia ha avuto sull’opinione pubblica hanno fatto perdere di vista un po’ a tutti i fondamentali dell’economia: i debiti pubblici schizzati a livelli mai visti e i processi logistici e industriali lasciati in mano a loro stessi hanno creato le condizioni di un salto inflazionistico forse pari solo allo shock petrolifero dei primi anni 70, con la sostanziale differenza che la complessità della società contemporanea, unita a una globalizzazione intensiva coltivata nel primo ventennio del secolo, ha complicato le cose a dismisura.
Come ci si sia fatti sorprendere così macroscopicamente da una serie di eventi coincidenti tanto ampi rimane comunque una domanda senza risposta.
Per quanto conosco io, l’industria e i servizi di intelligence delle grandi aziende automobilistiche (ma ciò vale per tutti i settori) sono così possenti da avere tutti gli strumenti necessari per capire il contesto del quadro economico mondiale.
È evidente che i pensieri erano destinati altrove. Sta di fatto che le aziende, pur spingendo le vendite di auto elettriche, sono inaspettatamente rimaste senza microchip, i noli dalla Cina hanno raggiunto la stratosferica quotazione di 18.000 dollari per container, il gas ha quadruplicato il suo prezzo e tutte le quotazioni delle materie prime destinate alla transizione energetica sono andate alle stelle.
Cosa sia saltato in mente alla Commissione Europea di lanciare il Fit for 55 in piena tempesta post Covid rimane un mistero: distrazione? Incoscienza? Incapacità di leggere gli eventi? Sta nei fatti che l’economia, quasi come per miracolo, ripartita con impeto (ma a mio parere più per ricostituire le scorte ridotte ai minimi durante i lockdown che per i reali consumi privati) giace ora in una grave incertezza sia sui progetti da varare, sia sulla loro sostenibilità economica nei prossimi anni. Tutto questo sta ovviamente rimettendo in discussione una globalizzazione priva di regole, ponendo allo stesso tempo questioni prioritarie su come difendere il tessuto industriale europeo, quale indirizzo dargli, come affrontare l’impennata dei prezzi delle materie prime e la loro disponibilità, ma soprattutto pone domande ferme (le cui risposte sono diventate ora improrogabili) sull’opportunità di tutto il pacchetto Fit for 55 alla luce dell’irrilevanza delle emissioni dell’Unione. Non c’è dubbio infatti che gran parte dell’impazzimento dei prezzi correnti derivi anche dai primi effetti del Fit for 55, che ha evidentemente amplificato i fenomeni di rincaro a causa di lacune intrinseche che sono da rimuovere al più presto. La storia dei popoli si potrebbe scrivere parallela alla storia della disponibilità energetica e della sua fruibilità, ma ciò probabilmente sfugge per mancanza di cultura a chi è titolato a prendere decisioni che riguardano l’assetto strategico ed energetico del continente.
Domande senza risposte
Non vi è dubbio che, tra i settori più colpiti dal Fit for 55, vi sia quello dell’auto.
Le vendite stanno precipitando (-32% in Italia a settembre, a mio parere in minima parte causate dalla mancata disponibilità di microchip), le materie prime stanno erodendo i margini dei costruttori e le fabbriche dopo mesi di cassa integrazione hanno cominciato a licenziare.
Ho ritirato fuori dalla libreria i miei vecchi libri di economia degli anni 80, quando si cercava una soluzione a una stagflazione decennale, ritrovando in alcuni aspetti di allora un’attinenza impressionante con quelli di oggi: inflazione a due cifre, una crescita negativa e dunque la tempesta perfetta da cui non fu per nulla facile uscire.
Come pensa l’Europa di potere trovare soluzioni fattive a questa situazione? Forse con qualche pannello solare o qualche pala eolica?
Speriamo che la ragionevolezza riconquisti al più presto le menti messe a dura prova da mesi di lockdown, riportando la politica su basi più concrete e pragmatiche.
L’altra domanda fondamentale riguarda invece la questione dell’auto elettrica e dei 3,5 milioni di lavoratori che operano nel settore automotive europeo.
Ammesso, ma non concesso, che il più urgente problema sia l’abbattimento della CO2 dei veicoli privati, l’azione più concreta sarebbe quella di sostituire il parco circolante più anziano italiano che rappresenta circa il 50% di tutte le auto in circolazione nel nostro Paese. Con le auto elettriche servirebbero miliardi di investimenti e tempi lunghissimi per l’implementazione di tutte le infrastrutture necessarie, oltre che avere effetti molto blandi sull’ambiente considerando la quantità di CO2 generata dalla produzione delle batterie e dell’energia elettrica necessaria.
Se invece si volesse un abbattimento immediato dell’anidride carbonica, si favorirebbe la sostituzione del parco circolante vecchio con auto Euro 6 già disponibili, senza la necessità alcuna di implementare infrastrutture o creare terremoti industriali costosi e pieni di incognite occupazionali.
L’obiettivo del Fit for 55 e della Commissione Europea è quindi quello di abbattere la C02, oppure promuovere le vendite delle auto elettriche? E se fosse vera la seconda ipotesi, chi si vuole favorire e perché?
Erbivori senza difesa
Essere un continente erbivoro significa non investire nella difesa e se questo fosse un obiettivo è il primo a essere stato raggiunto.
L’Europa vive in una specie di sogno lungo oramai 70 anni, in cui la spesa per il welfare ha raggiunto il 41% di quello mondiale, con il 18% del PIL, il 6% della popolazione e l’1% della spesa militare sul prodotto interno lordo.
Posizione invidiabile certo, che infatti ci ha fatto diventare il continente più rilassato al mondo e anche il più ambito dalle popolazioni dei Paesi poveri.
Fino a quando questi numeri saranno sostenibili? Il debito pubblico ha avuto una crescita così esponenziale negli ultimi due anni che ci si chiede perché tutti gli economisti e i politici prima del Covid si stessero ad accapigliare per uno 0,5% di deficit più o meno; ci stavano forse prendendo in giro?
Improvvisamente il debito sembra non sia più un tema, ma tutto è dovuto all’enorme massa monetaria riversata sui mercati che ha fatto sì che non mancasse liquidità alle aziende e alle banche nei momenti più acuti della pandemia e soprattutto che il denaro avesse un costo pari a zero.
La pacchia credo durerà ancora poco, perché ho la certezza che presto il debito diverrà il prossimo scoglio su cui la politica economica dell’Europa si incaglierà nuovamente.
Nonostante le nostre ambizioni erbivore, in un futuro molto prossimo dovremo prendere delle decisioni cruciali e non più procrastinabili in tema di difesa prendendo atto che chi ci ha concesso dal dopoguerra una vita così spensierata, cioè gli Stati Uniti, sta spostando i suoi interessi e le sue truppe nel turbolento scacchiere del Pacifico dove peraltro noi europei non abbiamo alcun ruolo e dove con buona probabilità si combatterà il prossimo conflitto.
Nessuna potenza è credibile senza un esercito efficiente ed efficace: la politica estera e di conseguenza quella economica, nonostante i pareri dei pacifisti, si fa ancora con la deterrenza militare, perlomeno fin che i nostri antagonisti la possiederanno, cosa che credo sia alquanto probabile. Se la spesa militare europea alle odierne condizioni dovesse aumentare, la coperta diverrebbe così corta che non ci rimarrebbe che fare altro che tagliare i privilegi del welfare che in sintesi sono pensioni, sanità e istruzione. Oppure, come alternativa più auspicabile, l’Europa dovrebbe prendere atto definitivamente che la crescita è la questione prioritaria e che per crescere servono due cose fondamentali: un’industria centrale e forte e una politica energetica tanto solida quanto competitiva. Il resto è solo rumore di fondo.
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