È giunto il momento di fare una sintesi e trarre qualche conclusione dalla proposta per la transizione energetica lanciata a luglio dalla Commissione Europea, non solo perché a breve l’iter approvativo in Parlamento inizierà il proprio tortuoso percorso, ma perché il piano mostra palesi tutte le sue incongruenze e fragilità, tanto che alti dignitari di tutta Europa hanno già sollevato severi dubbi sulla sua realizzazione. Avendo riscontrato fin da subito un alto tasso di politica demagogica non sono affatto sorpreso, anzi intravedo in tutta la manovra un intento che con l’ambientalismo c’entra poco o niente. Cercherò di articolare ogni singolo argomento con un commento forse utile per orientarsi nella somma intricata di elementi che compongono la proposta, concentrandomi anche sul tema dell’auto elettrica e delle sue conseguenze.
di Andrea Taschini
Il Fit For 55 (FF55) È l’insieme di norme che una volta approvate dal Parlamento Europeo regolamenteranno in maniera vincolante le emissioni di tutte le attività produttive, dall’agricoltura all’industria in senso più generico fino nella specificità del settore automotive. “55” sta ad indicare la percentuale di riduzione di CO2 che la Commissione Europea intende raggiungere entro il 2030. Il FF55 fa parte di un pacchetto normativo più ampio che prevede la neutralità climatica (= zero emissioni) entro il 2050 con la singolare peculiarità, per il settore auto, di potere vendere solo veicoli a “zero emissioni” dal 2035. Come vedremo in seguito, il ragionamento risulta ingannevole poiché non esiste un veicolo che nella somma delle operazioni della sua costruzione, del suo utilizzo e del suo smaltimento non emetta anidride carbonica. Il FF55 è una proposta della Commissione che come ha ben detto il ministro Cingolani a Cernobbio, sarà soggetta a modifiche da parte dei parlamenti degli Stati membri. Personalmente auspico che alla fine dell’iter approvativo le modifiche saranno profonde e sostanziali oltre che ragionevoli.
Il climate change
Non c’è alcun dubbio che le parti per milione di CO2 nell’aria siano aumentate in maniera rilevante negli ultimi 20 anni. In natura la concentrazione di anidride carbonica nell’aria è di 280 ppm, alla fine del secolo scorso dopo duecento anni di industrializzazione occidentale era salita a 320 ppm ma dal 2001, con lo sviluppo industriale cinese, mentre l’Europa diminuiva le proprie emissioni del 20% la CO2 ha raggiunto la ragguardevole quantità di 416 ppm. Gli scienziati che hanno dato l’allarme sui rischi dei cambiamenti climatici si sono sempre rivolti verso l’Occidente e mai verso il Paese maggiormente responsabile dell’aumento delle emissioni, e cioè la Cina: questo sa vagamente di doppiopesismo scientifico. Comunque sia, gli esperti hanno previsto catastrofi ambientali incombenti qualora la temperatura terrestre aumentasse di 1,5 gradi senza però ricordare, facendo un po’ di storia, che intorno all’anno 1000 d.C. la temperatura salì di ben 2 gradi centigradi con punte nel Nord Europa di 4 e non certamente a causa delle attività umane allora molto scarse. Nessuno vuole negare l’evidenza dell’aumento delle temperature odierne, ma come si può constatare il pianeta ha retto bene l’innalzamento dei gradi durante tutto il Medioevo fino al Rinascimento (poi iniziò la piccola glaciazione), per la gioia dei britannici che iniziarono a coltivare la vite e dei Vichinghi che scoprirono la “terra verde”, e cioè la Groenlandia. L’Europa: l’oggetto della contesa I reali obiettivi del FF55 risultano opachi e pelosi. L’Unione Europea è già di per sé ecologicamente virtuosa e considerando il fatto che produce solamente l’8% delle emissioni mondiali di anidride carbonica avrebbe il dovere di indirizzare eventuali investimenti per implementare politiche che creino un benessere diffuso, prendendo atto con un sano pragmatismo che non tutti i 27 membri godono dello stesso tenore di vita del ricco Lussemburgo. Ma non solo, una transizione energetica gestita top down da Bruxelles con questi presupposti rischia di allargare ulteriormente il divario di reddito tra i membri ricchi e quelli poveri dell’Unione. Ci sono delle aree comunitarie davvero bisognose di infrastrutture ed investire un fiume di denaro in una riconversione energetica, il cui costo Bloomberg stima in 173mila miliardi di euro, appare uno schiaffo ai bisognosi. Inoltre la proposta, così come è stata formulata, potrà mettere a serio rischio un numero molto elevato di posti di lavoro non rimpiazzabili nella loro interezza con le varie riconversioni industriali possibili, sia nel settore automotive sia in molti altri caratterizzati da un assorbimento energetico elevato.
La Germania
Le elezioni del 26 settembre, comunque vadano, segneranno una svolta in Europa. La leadership della Merkel, che a mio parere ha dettato parecchi errori alle politiche comunitarie, è a fine corsa. Tra le sue responsabilità più gravi metterei nei primi posti il non avere saputo mettere un freno alla demagogia verde tedesca ed essersi accorta troppo tardi della deriva che essa comporta. Inoltre, quella mai assopita voglia di rivincita verso gli Stati Uniti ha spinto la Germania, anche per malcelati interessi economici, a stringere patti di collaborazione con la Cina, il che rappresenta un gioco davvero pericoloso nel quale tra l’altro ha trascinato i 27 membri dell’Unione privi di una vera leadership in grado di contrastare quella tedesca.
La Cina: il grande inquinatore
Si dice che la Cina, con il 33% delle emissioni mondiali, inquina più degli altri Paesi avanzati semplicemente perché la popolazione è largamente superiore a quella europea e americana. In realtà le cose non stanno propriamente in questo modo. La modalità più corretta per stabilire se il Paese asiatico è virtuoso o inefficiente nelle sue produzioni energetiche è sovvertire i parametri di misurazione: ecco il risultato. Se si rapporta il PIL di ciascuna area di riferimento con le gigatonnellate di CO2 emesse si scoprirà che la Cina per ogni dollaro prodotto emette circa 4 volte l’anidride carbonica dell’Europa e 3 volte quella degli Stati Uniti. Appare così chiaro che non è una questione di numero di abitanti o del volume delle esportazioni verso altri Paesi, ma più propriamente è la misura concreta di quanto il sistema energetico cinese sia inquinante ed inefficiente. Se riportassimo in patria le produzioni delocalizzate otterremmo un abbattimento molto rilevante di CO2 (più di tutte quelle delle auto messe assieme) e metteremmo in sicurezza intere filiere strategiche per la nostra economia, creando al contempo migliaia di nuovi posti di lavoro. Si dice che la Cina sia un gigante economico ed è vero, un nano militare ed è una realtà e una pulce culturale, il che sarà il vero limite alla propria espansione. Fonti rinnovabili: “Made in China” Il grande paradosso di tutta la faccenda è che il più grande inquinatore del globo è lo sponsor più attivo per disincentivare i Paesi occidentali all’utilizzo di idrocarburi: una situazione davvero singolare. La realtà che spiega le cose è che quasi tutti i dispositivi oggi a disposizione per le energie cosiddette rinnovabili li importiamo dalla Cina: batterie, motori elettrici, pale eoliche e pannelli solari. Credo sia una delle azioni di marketing meglio riuscite della storia e in questo l’Occidente un po’ naïve pare ci sia cascato in pieno.
I certificati di emissione
Lo scandalo comunitario più grande dell’Unione Europea in fatto ambientale consiste nella tratta dei certificati di emissione. Ad ogni impresa viene assegnato un tetto di emissioni che se superato fa scattare delle sanzioni. Questi certificati possono essere acquistati o venduti in base alle proprie necessità. Si è così creata una sorta di Borsa in cui certune aziende lucrano vendendoli a prezzi crescenti in base alla domanda, che come potete immaginare è molto superiore all’offerta.
Il prezzo è così lievitato dai 25 dollari del 2019 ai 55 di oggi, ma è previsto intorno ai 100 dollari entro l’anno prossimo. Ovviamente questa logica mina la competitività di aziende anche strategiche per il quadro industriale italiano, perché manifatturiere e quindi fortemente energivore. Compromettere la competitività per le imprese significa dare loro tre sbocchi possibili: investire in tecnologie produttive virtuose, ma per ciò servono capitali ingenti che non tutte hanno a disposizione, delocalizzare in Paesi fuori dall’Unione o dismettere l’attività, il che si traduce negli ultimi due casi nel licenziamento di migliaia di lavoratori. D’altro canto ci sono aziende che si stanno arricchendo vendendo certificati a peso d’oro: uno scandalo davvero da fermare.
Ambientalismi estremi
Attorno al FF55 si stanno creando schiere di ambientalisti estremi; essi si dividono in quattro categorie principali:
ideologhi: come per tutte le ideologie è difficile avere un dialogo sensato;
sognatori: vogliono il mondo dell’impossibile senza rendersi conto delle conseguenze socioeconomiche che certe decisioni possono provocare;
radical-chic: solitamente appartenenti alla high class, cavalcano qualsiasi onda pur di sentirsi parte del trend del momento, ma sono pronti a cambiare onda con la stessa facilità con cui cambiano un paio di scarpe;
ecoapprofittatori: hanno un talento significativo nell’inseguire soldi derivanti da incentivi pagati con denari pubblici, che nel caso del FF55 cadranno a pioggia: oggi è il turno del green, domani sarà qualcos’altro; lo Stato deve vigilare che gli incentivi non vadano ad arricchire pochi individui senza che essi diano veramente un valore aggiunto a occupazione e sviluppo.
Auto elettrica BEV: non è a zero emissioni
Si tende a fare una gran confusione quando si parla di auto elettrica: sia in discorsi generali sia in alcune statistiche a mio parere volutamente forvianti, si tende a sommare i dati di vendita di auto pure elettriche con quelli delle auto ibride per accrescere la percezione dei numeri delle BEV nel mercato. Ovviamente le cose stanno diversamente: se le auto ibride riscuotono un discreto successo dovuto in gran parte ai generosissimi incentivi a spese dell’Erario, le auto elettriche hanno espresso vendite nei primi otto mesi del 2021 intorno al 3,6% del totale. Dire che le BEV sono a zero emissioni è una falsità degna delle più alte demagogie. La costruzione delle batterie è fortemente inquinante (si parla di emissioni equivalenti fino a 100.000 km di un motore endotermico) e ovviamente l’energia, che è solo un vettore e non una fonte energetica, viene prodotta ancora in larga parte con idrocarburi e quindi in termini di CO2 non cambia nulla se non addirittura, come nel caso della Germania che produce ancora il 40% della propria elettricità con carbone e lignite, peggiora drasticamente le cose.
“Libero motore in libero Stato”
A meno che non prevalgano estremismi talebani e dannosi, il FF55 verrà approvato con una liberalizzazione delle varie motorizzazioni sottoposte comunque a restrizioni di emissioni meno ideologiche ed assolutiste rispetto quelle della proposta attuale. Non è pensabile cancellare con un decreto aziende e tecnologie così performanti ed avanzate. Il motore elettrico sarà una delle motorizzazioni del futuro, ma non l’unica. Tra le altre cose, la distorsione dell’auto elettrica come unico mezzo di trasporto concesso spalancherebbe le porte alle vetture cinesi che con prezzi da dumping conquisterebbero il mercato automobilistico europeo in pochi anni. L’auto elettrica è infatti un prodotto sostanzialmente indifferenziato: un brand o una carrozzeria non fungerebbero più da barriera all’entrata e quindi il prezzo diverrebbe l’unico driver d’acquisto, con la conseguente estinzione delle Case automobilistiche continentali. Le varie tipologie di motorizzazione attraverso il miglioramento dei carburanti e delle prestazioni dei motori endotermici, otterranno in quindici anni livelli di emissioni così basse che gli automobilisti potranno scegliere quale auto sarà più congeniale alle proprie esigenze di utilizzo e possibilità economiche; auspicabilmente quella elettrica sarà solo una tra queste.
Conclusioni per una transizione realizzabile
La transizione energetica italiana costerà entro il 2026 600 miliardi di euro, di cui fino ad oggi ne sono stati stanziati 70. Una cifra enorme che fa sorgere la domanda se un tale sforzo economico in questa direzione sia opportuno per un Paese che emette solamente l’1,6% del CO2 mondiale, con il 160% di debito pubblico ed ha una colossale necessità di investimenti prioritari. Ad esempio, l’Italia investe solo l’1,4% in ricerca e sviluppo quando la media OCSE è sopra il 2,7% e ha una crescita della produttività negli ultimi 2 decenni del 7%, quando in media i Paesi dell’Unione hanno avuto il 27%. Avremmo bisogno di ben altri impieghi di capitali, tra l’altro in gran parte presi a prestito. Ciò che è veramente preoccupante è l’impatto sociale che l’Italia potrebbe subire da una transizione affrettata e squilibrata. Ogni investimento deve avere un payback tanto solido quanto concreto e per uno Stato nazionale il ritorno è rappresentato dal benessere dei cittadini in termini economici, perché esso dà accesso a tutta una serie di benefici fondamentali tra cui il lavoro. Inoltre gli aspetti più preoccupanti riguardano l’opportunità di tutta la transizione nei tempi dettati dal FF55, perché non tutta l’Italia è Milano. Per un Paese industrializzato ma privo di materie prime come il nostro, la competitività è un asset fondamentale e irrinunciabile. Essa si concretizza con una efficienza di sistema, tra cui quella energetica in termini di costo e fruibilità è la prima della lista. Per quanto riguarda le emissioni mondiali sono e rimango scettico: la Cina non smetterà di aumentare le proprie e qualora fosse, altri Paesi con miliardi di individui pretenderanno di raggiungere un certo benessere emettendo CO2 senza alcun riguardo di regole e leggi, tanto che l’immane sforzo europeo sembrerà una goccia nell’oceano. È inoltre certo che gli idrocarburi accompagneranno ancora per decenni l’umanità: bisogna imparare a gestirli riducendo le emissioni durante il loro l’utilizzo. Se gli scienziati pensano davvero che i cambiamenti climatici aumenteranno i fenomeni estremi orienterei gran parte della spesa in prerevisione di ciò, investendo enormi risorse nella difesa del territorio e nel contenimento delle acque (Mose insegna) e della loro gestione. Penso che i ministri del Governo Draghi e dei prossimi esecutivi che verranno avranno un gran da fare per difendere gli interessi nazionali, che a questo punto diventeranno molto complessi da gestire e vitali per il Paese.
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